Ormai è da tempo che mi capita di leggere articoli dove si dibatte la corretta definizione di gin. Da una parte ci sono i cosiddetti “puristi” che si rifiutano di chiamare gin tutti i distillati che non hanno chiari e netti sentori di ginepro, dall’altro ci sono gli sperimentatori e gli innovatori del settore, che creano prodotti altamente aromatizzati a scapito del ginepro. Il problema nasce dal momento che non c’è una reale definizione condivisa di gin, perché quella diffusa è notevolmente vaga: un distillato con infusione di botaniche tra le quali il ginepro deve essere presente in percentuale maggiore delle altre e con una gradazione alcolica minima del 37%. Si capisce che il margine è molto ampio, infatti la base alcolica di solito è di grano, ma può essere anche ricavata dalla fermentazione di qualsiasi altra cosa; le tecniche di distillazione sono molteplici e tutte egualmente valide; i metodi di infusione o macerazione possono variare; a parte il ginepro che è essenziale, si può utilizzare qualunque altra botanica (sappiamo che esistono gin con l’aragosta, con le formiche rosse e chi più ne ha più ne metta) e il numero di esse può variare notevolmente (ci sono gin con cinquanta botaniche, altri con cinque e altri che addirittura hanno solo il ginepro).