E niente, non mi hanno visto. Cioè uno mi ha anche visto e guardandomi mi ha detto: “Se non mi fossi già mangiato il risotto a pranzo mi ti porterei a casa e ti butterei in una pentola per farmelo a cena. Sei l’orgoglio nostro.”
Allora. O ha saputo anche lui della mia storia e sta facendo dell’ironia, di basso livello peraltro, mi prende in giro; oppure non ha ancora capito la mia importanza.
Ma le conosce le mie proprietà organolettiche?
Sicuramente si sarà concentrato più che altro su quelle delle altre botaniche, che per carità, nulla da togliere eh! Però dai. La ginestra? Il timo selvatico? La radice di iris? Il biancospino? La rosa canina? L’angelica? La genziana?
Ma cosa ho da invidiare io a queste qui? Ma nulla!
E pure loro sono tutte nell’Aqva Lvce Gin. E io no. E non dormo la notte. E mi faccio il sangue amaro.
E loro invece si fanno il bagnetto in infusione per due settimane, e poi via nei due alambicchi di rame da cento litri a diventare un gin buonissimo, equilibrato, con note erbacee e un gusto tondo che dura nel palato.
E io le guardo, tutte queste botaniche che fanno la sfilata mentre vanno a lavoro davanti a me, davanti al radicchio rosso di Treviso. E mi faccio verde d’invidia (in senso figurato, rimango comunque viola e bianco) e urlo, mi dilanio, interrogo il firmamento di questa ingiustizia e m’immagino sempre costantemente e con un sorriso amaro di finire, finalmente un giorno, dentro questo gin.