Noto sempre più spesso che le serate di “Guest Bartending”, durante le quali un barman di un locale prestigioso porta la sua esperienza e le sue ricette dietro banconi di altri bar, vengono disertate dalla massa. Al netto dei trionfalismi da social e delle belle foto, il cassetto a fine serata raramente è proporzionale all’investimento profuso. Eppure, se vogliamo fare un parallelismo, le medesime serate degli chef stellati in altri ristoranti hanno un peso nettamente differente sull’esito della serata. Questo, secondo me, è dovuto al fatto che il peso mediatico degli operatori di cucina sta vivendo un momento storico di massimo spolvero, mentre quello del bartender arranca ad affermarsi. Complice la demonizzazione culturale dell’alcol nella nostra epoca e la scarsa appetibilità al pubblico di queste figure professionali.
Altro fattore differenziante consiste nel fatto che gli chef, arrivati ad un certo punto della loro carriera, propongono la loro personale cifra stilistica in cucina, risultato di anni di evoluzione, e questa è nettamente riconoscibile dal cliente medio mentre gli operatori bar raramente hanno un timbro identificabile nelle loro ricette. Spesso vediamo strutture di drink classici rivisitate con acetati, fermentati, affumicature, sparabolle cinematiche, ghiaccio secco e altro, il tutto riproposto come “signature drink” a prezzi gourmet ma senza averne realmente il livello.